Archive for February, 2014

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046 2007-07-25 Nubia, Abu Simbel

February 27, 2014
Nubia, Abu Simbel

Nubia, Abu Simbel

Qualche volta in una foto non si può vedere tutto, c’è sempre qualcosa che rimane nascosto, come in questo caso: l’acquerello di Pascale.

Quel primo pomeriggio, quando siamo arrivati ad Abu Simbel in Nubia, era caldissimo. 45C alla fine di luglio non dovevano essere una sorpresa. Abbiamo aspettato la sera prima di andare a vedere il tempio di Ramesses II. Da sempre questa era stata una delle mitiche destinazioni che volevo raggiungere. Pascale ed io avevamo questo comune desiderio, specie dopo aver letto e visto tante fotografie alla fine degli anni sessanta quando l’intero complesso fu tagliato a fette e rilocato su una collina ottanta metri più in alto, altrimenti sarebbe finito sommerso dall’acqua del Nilo dopo la costruzione della diga. Fu emozionante anche se in qualche modo non era esattamente la stessa cosa.

L’amico Vante l’aveva visto nel suo posto originale e per questo non gli ho mai celato la mia invidia. Quando ci arrivò nel 1959 risalendo il Nilo da Alexandria con una barca a motore con altri amici milanesi non c’erano turisti e neanche guardiani, ma solo pestifere zanzare, “grandi come elicotteri” come raccontava lui.

Pascale si è subito sistemata ed ha cominciato a fare il suo acquerello, mentre io girovagavo cercando d’immaginare quando Giovanni Belzoni, uno dei miei eroi, ci arrivò all’inizio dell’ottocento e lo trovò quasi completamente coperto di sabbia. Non gli fu facile ritrovare l’ingresso.

Quel giorno c’era solo una frotta di giapponesi che avevano riempito lo stesso aereo con cui viaggiavamo. Noi eravamo gli unici europei, infatti a sera quando andammo a vedere lo spettacolo di “Luci e Suoni” ce lo sorbimmo in giapponese. Direi assurdo: una francese ed un italiano in Nubia che assistono uno spettacolo in giapponese.

Globalizzazione?

   

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049 2013-10-27 La vecchie biblioteca di Salem State College

February 27, 2014
Salem University, la vecchia biblioteca

Salem University, la vecchia biblioteca

Ecco cosa rimane della vecchia biblioteca di Salem State College e penso che fra pochi giorni non ci sarà più niente, forse ci sarà solo un parcheggio. Ho visto, abito a mezzo kilometro, che sono stati veloci nel tirar giù tutto, anche se la struttura di cemento armato sembra ben forte.

Salem State non è più un college, da un paio d’anni ha avuto la certificazione per esser promosso ad university. E con il nuovo nome è arrivata anche una nuova biblioteca. Non l’ho ancora vista; mi è stato detto che non solo è archettonicamente bella ma è piena di tutte le innovazioni tecnologiche immaginabili, che di certo saranno obsolete fra un anno.

La vecchia biblioteca, che fu costruita una trentina d’anni fa, nacque male. Pochissimo tempo dopo l’inaugurazione cominciarono a comparire delle impalcature di ferro che sembravano sestenerne la struttura. Col tempo si son moltiplicate fino a sembrare un edificio in gabbia.

Le fondamenta avevan cominciato a cedere e l’edificio stava sprofondando. Ma cosa era successo? Un “piccolo” errore: forse l’ingegnere responsabile non aveva studiato bene scienza delle costruzioni, nei suoi calcoli del peso del’edificio s’era dimenticato di calcolare il peso dei libri, e i libri pesano tanto. Ma sarà vera? Non lo so, forse è solo an urban legend, ma questa storia l’ho sentita dire da tanti, incluso un professore.

  

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049 1966-03 Sansepolcro, il Bubboloni al carnevale

February 26, 2014
il Bubboloni al carnevale del 1966

il Bubboloni al carnevale del 1966

Ma come funziona? Non lo so.
Ci sono quelli che hanno un nome, altri che hanno un soprannome ed non han bisogno d’altro per esser identificati, come i santi o gli dei dell’Olimpo. Poi ci son quelli, ma direi son più rari, che son conosciuti solo con il cognome, ma sempre con l’articolo davanti. L’articolo davanti al cognome, quando viene appioppato ad un personaggio storico conosciuto ha un senso negativo, quasi di disprezzo. Avevo un professore che immancabilmente diceva “il Mussolini”.
Il Bubboloni aveva un nome, forse Mario (?), ma non son sicuro. Era più grande di me, quindi non fui partecipe di tante delle sue mitiche avventure picaresche con i suoi amici nipponici (termine che non voleva dire giapponese, obsoleto dopo la legge Merlin) di cui sentivo tanto parlare. Io osservavo da lontano assieme alle sue scorribande in motocicletta con cui imperversava in lungo e in largo, un po’ come quel motociclista misterioso che Fellini ha immortalato in Amarcord.
Una volta (1957) ci siam ritrovati ad abitare nella stessa casa, anche il su’ babbo lavorava alla Buitoni. E nello spazio comune nel seminterrato aveva una bellissima bicicletta da corsa, col manico ricurvo e addirittura tre marcie, cosa eccezionale per quei tempi. Quando vide il mio interesse mi disse che la potevo usare quando volevo, una condizione: dovevo stare sempre con la bicicletta, se no di certo la rubavano. Felice la presi e a tutta velocità corsi per la valle fino a San Leo e poi comincia a salire per Val de Gatti, vecchia strada molto più ripida, e metà via ero spompato e mi dovetti fermare, non ce la feci. Glielo raccontai e fece un gran risata “Non bastano le marcie, ci vogliono anche i polpacci boni!”
Una delle sue esibizioni avveniva in Piazza Garibaldi. Partiva con la motocicletta e risalendo a tutta velocità la rampa sulla sinistra, volava sopra i due o tre scalini del marciapiede per atterrare in via degli Aggiunti frenando per non finire sul muro di San Francesco. Grandi applausi dei testimoni che lo aspettavano in cima. Inutile dire che Alvaro la guardia non era contento di queste sue bravate, come le chiamava lui.
In questa foto, vestito da marinaretto, è alla guida d’un carro di bambini in costume tutti festanti al carnevale del 1966.
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046 1961-10-16 Casoria, la Pastina Glutinata Buitoni

February 25, 2014
Casoria, un camion della Pastina Glutinata Buitoni

Casoria, un camion della Pastina Glutinata Buitoni

C’era una volta la Pastina Glutinata Buitoni…
Ma poi come è andata a finire? Diciamo non bene, per non dire male, dopo tutto non era mica una fiaba. E pensare che aveva goduto un lungo periodo di gloria. Non so neanche se oggi, in un epoca dove al supermercato fra gli scaffali della pasta ne trovo uno di quella senza glutine, continuano a produrla. Io quella senza glutine non l’ho mai assaggiata. Anche io ho le mie rigide regole religiose, sono il figlio del mi’ babbo. Mi sentirei in colpa come un ebreo che ha non osservato le regole kosher od un mussulmano che ha dimenticato quelle halal.
Son nato e cresciuto sapendo che non c’era niente di meglio della pastina glutinata per garantire uno sviluppo sano del bambino, quello dal faccione tondo immortalato nel manifesto di Seneca. A me l’hanno data, ma forse hanno smesso troppo presto e son rimasto basso. Pascale, mia moglie, l’ha mangiata a Parigi alla fine degli anni cinquanta.
Buona parte del benessere d’un paese, Sansepolcro, derivava dal successo della pasta Buitoni, ed in particolare di quella glutinata. Un dimenticato professore dell’università di Bologna, Jacopo Beccari, alla fine del settecento aveva scoperto il glutine ed era riuscito a separarlo dalla farina. Ma poi come questo segreto fosse arrivato nelle mani dei Buitoni non lo so, ma so che lo utilizzarono bene ed avevano addirittura brevettato il nome.
Ogni giorno partivano da Sansepolcro camion e rimorchi carichi di pasta di tutti i tipi ed io ho avuto la fortuna di girellare per l’Italia in lungo e in largo in un tempo in cui non c’erano autostrade ed i ristoranti dei camionisti erano i migliori. Questa foto fu fatta un mattino presto, prima d’entrare a Napoli, dopo aver viaggiato tutta la notte. È un camion del Frullani, Italo è quello con la camicia bianca. Sembrava che i militi della stradale ci avevano fermato per far due chiacchiere, forse il nome Buitoni dettava rispetto, era una multinazionale, infatti la scritta indica Italia Francia Stati Uniti.
                                                                                                             
PS: La ditta di trasporti di cui Italo Frullani era titolare, si espanse e divenne la “Sud Trasporti”. L’altro autista nella foto era Sante Donnini detto Cipio (grazie Donatella Zanchi). Per questo viaggio di ritorno abbiamo caricato tanti sacchi di nocciole destinate alla Perugina per la produzione dei Baci.

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048 2014-02-17 New York, il Volto Santo al Metropolitan

February 23, 2014
il Volto Santo al Metropolitan di New York

il Volto Santo al Metropolitan di New York

 Proprio sopra l’ingresso alle sale dedicate al Rinascimento italiano al Metropolitan Museum di New York c’è un Volto Santo. È in alto e spesso si rischia di passare per quella porta magari senza notare che è lassù. È facile distrarsi, c’è troppa roba in giro.
Le informazioni indicano che questo viene da un monastero dalle parti di Treviso (circa 1180-1210).
E qui viene il bello. Infatti le informazioni addizionali, a parte la solita leggenda che l’originale fu scolpito da Nicodemo, presente alla crocifissione di Gesù, indicano che questa statua lignea fu fatta copiando quella di Lucca.
Domanda: e se possibile vorrei una risposta diretta, ma qual è l’originale? Non una dettata dal campanilismo Borghese o da quello Lucchese. Entrambi affermano senza esitazione che il loro è quello vero. Ci sono degli studi scientifici che mettano a tacere una volta per tutto questa controversia sull’autenticità?
Conosco meglio quello di Sansepolcro, per ovvie ragioni, anche se ho visto più d’una volta quello di Lucca che ho trovato molto scuro e locato in un modo che non permette una chiara visione. Non so se la situazione sia mutata negli ultimi anni. I lavori di restauro e di ripulitura del Volto Santo di Sansepolcro ci hanno davvero ridato lo splendore della sua gloria.
La differenza fondamentale che accomuna tutti i “Volti Santi” è un senso di austera regalità che il Cristo vestito emana. Non è quello seminudo martirizzato che si vede normalmente. Questo non ci ricorda alcun dolore, ma piuttosto l’immagine sicura del re che ci indica la strada della salvezza. Questa è la mia percezione e proprio per questa oso dire: m’è simpatico, termine che non si usa spesso parlando d’un crocifisso.
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047 2014-02-17 New York, ICP, Capa in Color.

February 21, 2014
1954-05 l'ultmo scatto di Robert Capa

1954-05 l’ultmo scatto di Robert Capa

La mia è solo la foto d’una foto ed il mio riflesso sul vetro la deturpa. Questa è la fine d’una storia, da qui nasce la leggenda, questo è l’ultimo scatto di Robert Capa.
Anch’io ho i miei eroi e sono i viaggiatori, e se uno è anche fotografo allora sale in cima alla classifica.
Pochi giorni fa ho visto all’International Center of Photography (ICP) di New York una mostra fotografica dal sorprendente nome “Capa in Color”. Ma come? Capa aveva fatto foto a colori? Non lo sapevo. Ho scoperto che dopo il 1940 quasi sempre aveva due macchine fotografiche (Laica) al collo, una con la pellicola in bianco e nero e l’altra a colori, diapositive. Con le limitate tecniche del tempo era molto difficile riprodurle in stampa e con risultati scadenti, quindi queste furono poco riprodotte.
Un pomeriggio della fine di maggio del 1954 Capa seguiva dei soldati durante un rastrellamento in Indochina (ancora per poco francese) quando mise un piede su una mina e saltò in aria, morì dopo pochi minuti. Lui che era stato in prima fila in Spagna, che era sbarcato con la seconda ondata in Normandia armato com una Laica, aveva incontrato la morte in una risaia di quello che oggi si chiama Viet Nam. Le sue due macchine fotografiche non subirono danni e le pellicole intatte ci hanno salvato i suoi ultimi scatti. Emozionante, almeno per me.
Il coraggio di Robert Capa ci ha lasciato un’unica testimonianza di vent’anni di storia. Ripeto una sua famosa frase “Se la foto non è interessante vuol dire che non eri vicino abbastanza” e per esser vicino ha pagato con la vita.
Un’altra ragione della mia stima, per non dire invidia: è stato l’amante di Ingrid Bergman

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046 1971-01 New York, tutto da scoprire.

February 15, 2014
New York da scoprire

New York da scoprire

E quello davanti a me era l’Empire State Building, quello di King Kong, ce l’avevo fatta, ero arrivato a New York. Solo pochi anni prima a Firenze avevo visto in casa d’amici un strana e lunga confezione di fiammiferi, del tipo Minerva, che aveva la forma del famoso grattacielo. Ebbi un gran desiderio: devevo andare a New York.
Ero ospite dei miei cugini Braganti americani, che abitavano nel Village ed appena uscito di casa, girando sulla 6th Avenue vidi quell’inconfondibile sagoma. Impressive! Le (tragiche) Torri Gemelle non erano state ancora costruite.
Avrei dovuto esser soddisfatto, contento ma non lo ero. Infatti l’obbiettivo di quel viaggio non era quello di fare il turista ma quello di cercar lavoro. Ero arrivato negli Stati Uniti da alcuni mesi e non avevo trovato ancora nulla.
Quasi trentenne, la moglie incinta che lavorava e mi manteneva e con le idee poco chiare sul da farsi, non avevo una prospettiva incoraggiante per il futuro. In poche parole ero molto giù.
Ed avanti a me, quella mattina, si aprì l’immensa metropoli, tutta per me. Dopo tre o quattro giorni e dopo aver camminato senza sosta per la città in lungo e in largo, ed incontrato gente che speravo m’aiutasse, ritornai a Boston senza nessuna concreta prospettiva. Tempi duri.
Ma le cose cambiarono, per fortuna e solo dopo un paio di mesi, Trovai un lavoro.
Nella mia avventura americana ci sono stati anche sei anni a New York.
I love New York e ci vado questo pomeriggio, per quasi una settimana, ci son tanti amici da vedere e sopra tutti Tanya, mia figlia.
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045 1996-03 Sansepolcro, le collegiali al carnevale.

February 13, 2014

045  1996-03 Sansepolcro, le collegiali al carnevale.E poi c’erano le collegiali.

Le ho sempre viste, da lontano, in fila, misteriose, ben inquadrate come fossero una compagnia di soldati, con quelle più piccole nelle prime file per poi a salire, a secondo l’altezza. Indossavano un’impeccabile divisa di buon taglio, ricordo il cappotto blu e portavamo il cappello. Mi sembra che guardavano sempre dritto in avanti. Peccato che Fellini non sia venuto a Sansepolcro a riprenderle, sarebbe state perfette comparse di sottofondo in uno dei suoi film.

Ma chi erano? Sapevo che erano ragazze che venivano da lontano, da ogni parte d’Italia. Studiavano a Sansepolcro perché c’era un gran palazzone che le ospitava. Prima della guerra era ancora dedicato ad una regina, ma poi con la repubblica era rimasto solo: INADEL. Ma che strano nome, pensavo io. Qualcuno mi disse ch’era una fabbrica di future maestre, ma a me pareva una caserma rigidissima dove tenevano prigioniere tutte quelle belle ragazze, che crudeltà per loro ed anche per noi ragazzi che le volevamo così tanto liberare e conoscere.

Quando arrivai alle medie, nello stesso edificio del loro convitto, le vidi un pochino più da vicino, incrociandole nei corridoi, loro erano solo nelle classi femminili. Mi sembravano tutte belline e sempre enigmatiche ed irraggiungibili, e loro guardavano solo diritto, senza mai girar la testa.

Poi andai al liceo e loro tutte alle magistrali.

Quel giorno di carnevale del ’66, ero tornato da Firenze, fui molto sorpreso quando vidi le collegiali mischiate fra folla, ed anche se in gruppo non erano più inquadrate ed i cappelli pieni di coriandoli mi fecero capire che i tempi stavano cambiando e non era ancora arrivato il ’68.

Solo l’estate scorsa ho finalmente incontrato una collegiale. Ecco, un mio amico ha avuto il vantaggio d’esser nato più tardi, lui la bella collegiale l’ha potuta fermare per la Via Maestra e lei è rimasta a Sansepolcro.

 

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045 2009-08-02 Narbonne, il ritratto della bisnonna.

February 12, 2014
la misteriosa gran dama

la misteriosa gran dama

Dico spesso che ogni immagine ha una sua storia. Vero, ma non è detto che la conosciamo, o che tanto meno sarà possibile trovare risposte soddisfacenti alla nostra inappagata curiosità.

Viaggiare il primo week-end d’agosto in Francia non è una buona idea e non credo che sia meglio in Italia. Finalmente arrivammo a Narbonne e dopo ingorghi senza fine trovammo una camera in un vecchio albergo, forse era l’ultima disponibile. Non era gran che, ma era in centro e con facile parcheggio.

All’accettazione, un piccolo banco in uno spazio angusto, c’era un signore anziano, capelli bianchi e distinto. La prima impressione fu: “Ma cosa ci fa qui questo signore?” Non sembrava che quello fosse il suo posto.

“La colazione è compresa.” aggiunse alla fine della transazione.

Dopo esserci sistemati, la camera era modesta e pulita, ed in fondo è quel che conta, andammo ad esplorare la città, senza immaginare che nel giro di pochi anni l’avremmo conosciuta così bene. La nostra casa a Tuchan è a circa trenta di chilometri da Narbonne.

Ed al mattino andammo a far colazione. Sorpresa! In quella saletta con quattro o cinque modesti tavoli di formica troneggiava il dipinto, che ricopriva gran parte della parete, d’una gran dama. Sembrava che mi osservasse, voleva forse approvare la mia presenza, che fossi propriamente presentabile?

“Bellissima, ma chi è?” chiesi a quello stesso signore dell’accettazione indaffarato a servire la colazione. Sembrava che fosse l’unica persona a lavorare nell’albergo. Ma rifaceva anche i letti?”

“La mia bisnonna.” E dopo una breve pausa “Noi veniamo dal Belgio.”

L’ovvia domanda che non feci “Ma come ha fatto una tal gran dama a finire in un posto come questo?” Non lo saprò mai. Ma son certo che Dumas avrebbe potuto scrivere un romanzo di mille pagine sulla storia di questa dama e come il suo ritratto da un château in Belgio era arrivato in quel modesto alberghetto di Narbonne. Read the rest of this entry ?

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048 1966-02 Sansepolcro, Luigino e la Balilla al carnevale

February 10, 2014
Luigino e La Balilla, storia d'un amore.

Luigino e La Balilla, storia d’un amore.

“C’era una volta Luigino e una Balilla…” fiaba meccanica, non un’arancia.

Luigino è uno di quelli che non ha bisogno del cognome: Luigino è Luigino e basta.

Quando ero ragazzo lui era gia grande e lo vedevo sempre, ovunque. In ogni evento, grande o piccolo che fosse, Luigino era di solito coinvolto se non addirittura parte dell’organizzazione e per questo l’ammiravo. E nella mia ammirazione non va sottovalutato il fatto che non mancavano mai delle belle ragazze.

Luigino era spesso l’animatore della festa, e lo faceva con sincera spontaneità che riusciva ad unir tutti nella gran risata.

Poi un giorno Luigino incontrà una Balilla e fu un amore a prima vista. Lei di amori ne aveva avuti tanti e si era quasi rassegnata ad una triste vecchiaia piena di acciacchi, solitaria e rugginosa, quando un giovane baldanzoso e fiero la prese per lo sterzo e le sussurrà:

“Non ti preoccupare, sei sempre bella, non lasciarti andare. Ti aiuterò a ritrovare il sorriso e la spensieratezza dei vent’anni. Assieme saremo felici.”

L’ultimo amoroso della Balilla era stato ingrato, non solo l’aveva spuderatamente condivisa con i suoi amici, scorrazzando per l’Europa dopo averla imbrattata con scritte come “noli mingere contra ventum” o “chiudete le ragazze in casa che s’arriva noi.”  Umiliante.

Luigino sapeva cosa fare, la Balilla doveva ritrovare il sorriso, la gioia di vivere girando liberamente per le strade del mondo. Ci voleva un intervento drastico, una complessa operazione di chirurgia meccanica che, anche se dolorosa, diede degli ottimi risultati. Con l’aiuto d’una squadra d’esperti Luigino segò il tetto, divenne una decapottabile e poi ci volevano colori giovani e vivaci e non più quel nero da carro funebre,.

E cosi fu, e la loro sortita fu un trionfo ricolmo d’ammirazione ed avazioni come quel giorno del Carnevale del 1966 a Sansepolcro. Per l’occasione Luigino sfoggiò una quasi impaccabile marsina rossa con tanto di tuba in testa ed i calzoni con la banda rossa, come fosse un carabiniere.

Penso che Luigini sussurrò alla Balilla con un sorriso:

“Spero che tu sia felice, io ti amo, ed assieme conquisteremo il mondo!”