Qualche volta in una foto non si può vedere tutto, c’è sempre qualcosa che rimane nascosto, come in questo caso: l’acquerello di Pascale.
Quel primo pomeriggio, quando siamo arrivati ad Abu Simbel in Nubia, era caldissimo. 45C alla fine di luglio non dovevano essere una sorpresa. Abbiamo aspettato la sera prima di andare a vedere il tempio di Ramesses II. Da sempre questa era stata una delle mitiche destinazioni che volevo raggiungere. Pascale ed io avevamo questo comune desiderio, specie dopo aver letto e visto tante fotografie alla fine degli anni sessanta quando l’intero complesso fu tagliato a fette e rilocato su una collina ottanta metri più in alto, altrimenti sarebbe finito sommerso dall’acqua del Nilo dopo la costruzione della diga. Fu emozionante anche se in qualche modo non era esattamente la stessa cosa.
L’amico Vante l’aveva visto nel suo posto originale e per questo non gli ho mai celato la mia invidia. Quando ci arrivò nel 1959 risalendo il Nilo da Alexandria con una barca a motore con altri amici milanesi non c’erano turisti e neanche guardiani, ma solo pestifere zanzare, “grandi come elicotteri” come raccontava lui.
Pascale si è subito sistemata ed ha cominciato a fare il suo acquerello, mentre io girovagavo cercando d’immaginare quando Giovanni Belzoni, uno dei miei eroi, ci arrivò all’inizio dell’ottocento e lo trovò quasi completamente coperto di sabbia. Non gli fu facile ritrovare l’ingresso.
Quel giorno c’era solo una frotta di giapponesi che avevano riempito lo stesso aereo con cui viaggiavamo. Noi eravamo gli unici europei, infatti a sera quando andammo a vedere lo spettacolo di “Luci e Suoni” ce lo sorbimmo in giapponese. Direi assurdo: una francese ed un italiano in Nubia che assistono uno spettacolo in giapponese.
Globalizzazione?
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